venerdì 19 marzo 2010

Cornelio Tacito, Annales ab excessu divi Augusti

Finito in settimana il secondo dei capolavori dell'annalistica latina, uno dei libri più spaventosi che mi sia capitato di leggere. Spaventoso per il contenuto: il testo che ci è rimasto si riferisce agli imperatori della casa Giulio-Claudia, che governano Roma, come dice il titolo tramandato, dalla morte di Augusto, divinizzato, fino alla morte di Nerone, l'ultimo prodotto delirante di questa dinastia. Le vicende sono quelle che hanno creato la leggenda di imperatori sanguinari, folli, esagerati nelle loro passioni e nella violenza contro gli oppositori: certamente si tratta di una visione partigiana, viziata però (se si può dire vizio la passione civile) da una avversione che non è meramente politica, ma in primo luogo intellettuale e profondamente etica. Per Tacito la cosa pubblica deve essere al di sopra di ogni altro interesse: Roma non può essere identificata con la figura dell'Imperatore, né con la compagine del Senato - i cui membri non sono certamente degli stinchi di santo, valga per tutti l'esempio di Pisone, colui al quale viene attribuita la fallita congiura contro Nerone - né tanto meno con una forma di costituzione - la Repubblica - ormai definitivamente perduta e irrecuperabile. E il discorso risulta ancora più eccezionale se notiamo che non è uno scontro tra sistemi politici a tenere banco nel discorso di questo senatore che porta il cognomen di una gens nobilissima per antichità e ricchezza e abitudine al potere nel Senato repubblicano. Tacito non è uomo smaccatamente di parte né un nostalgico laudator temporis acti, e ciò fa della sua opera un esempio altissimo di come si possa e si debba individuare e ricercare il bene comune guardando con lucidità alle mancanze della propria parte e sapendo leggere i segni dei tempi, che passano e non possono tornare su sé stessi. La lucidità, però, non gli impedisce di essere anche addolorato di fronte alla condizione di degrado in cui versano le cose pubbliche, per la protervia dei potenti e l'ignavia o la cecità o la sclerosi intellettuale e morale degli oppositori, e qui il testo attinge al suo secondo motivo di grandezza. La prosa in cui son scritti sono specchio formale di questo dolore e questo rammarico. Sullo sfondo torbido di una società che ha perso la bussola morale, perfettamente reso da una sintassi barocca e scivolosa, si abbattono i fulmini dei giudizi dell'autore, tremendi nella loro forma ellittica e istantanea, rapidissimi, definitivi, senza scampo. Formule stupende in latino, cui spesso la povertà espressiva dell'italiano moderno non rende giustizia, e che vanno lette in originale, a costo di perdere la bussola tra le coordinazioni a senso, gli anacoluti, le forzature semantiche. Come quando parla di Nerone, e dice che "egli stesso volle che vi assistesse (alle sue performances equestri) il popolo romano che lo levò al cielo con le sue lodi, come fa il volgo sempre bramoso di divertimenti e felice quando vede che un principe è incline al piacere".
Tacito è un autore maiuscolo, che dovrebbe essere lettura obbligatoria nelle scuole - e tanto più in questi tempi cupi, di protervia del potere e servile ignavia del popolo.

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