mercoledì 3 marzo 2010

Don DeLillo, MAO II

Un libro inquietante.
Sarò vecchio, ma ogni tanto la scrittura sfasata, senza linearità, senza continuità, con strappi e passaggi improvvisi dalla descrizione all'azione al flusso di coscienza, mi spiazza e un po' anche mi stanca. E non sempre questo genere di approccio stilistico aiuta a sostenere il ritmo. Non che ritmo e sfasatura narrativa siano incompatibili: nemmeno William Gibson è lineare e assertivo nel suo narrare, ma Neuromante, o anche il più recente Guerreros hanno ritmo, attenzione sull'essenziale, cambi di stato e di fase, tutto con una scorrevolezza magica.
Detto questo, DeLillo sembra fare apposta a mettere il lettore in una condizione di disagio, come se ci volesse obbligare ad assistere a una puntata di Porta a Porta seduti su una padella piena di brace. Il che è esattamente quello che succede: leggere DeLillo è, a tratti, spiacevole come assistere a un litigio tra ex innamorati che mettono in piazza il loro fallimento urlando nella sala d'aspetto del dottore. Il fatto è che sappiamo benissimo che quell'inquietudine che ci comunicano i suoi personaggi è la stessa che percepiamo attorno a noi ogni giorno entro la realtà alterata in cui viviamo: Katrin e Scott e Brita sono personaggi realissimi con le loro manie, i loro squilibri, i progetti (assurdi) concepiti per durare una vita intera e falliti miseramente senza nemmeno sapere bene perché.
Il più diverso è Bill, lo scrittore, l'unico che si schioda davvero, che va a cercare qualcosa tentando di affermare una azione definitiva, e che nel farlo trova l'unica definitività concessa all'uomo, la morte, sullo sfondo di eventi epocali come i funerali di Khomeini e l'invasione israeliana del Libano. Ma in realtà anche questa morte è, all'origine, scatenata da un caso, una banale distrazione nell'attavesare in incrocio, un incidente cui Bill potrebbe rimediare facendosi ricoverare per guarire il versamento di sangue dal fegato. Ma qui è la vera differenza di Bill, che non si accomoda nella soluzione medica, ma continua a camminare, a cercare, a muoversi verso Beirut alla ricerca di un poeta rapito da un gruppo terrorista. E le pagine in cui lui e il suo editore (nemmeno tanto cinico) discutono sul potere della parola e della letteratura in mezzo alla follia della guerra sono tra le più belle che si potessero scrivere alla fine del millennio.
E tutta la Premessa, che narra un matrimonio di massa celebrato dal reverendo Moon allo Yankee Stadium e la vita tremenda delle ragazze affiliate alla setta, risulta, alla fine, rivelatrice di quella follia collettiva che ha preso l'Occidente in fuga dalla ragionevolezza verso la parte più recondita e misteriosa della propria eredità culturale.

PS non ci sono sostituti nei "libri in lettura" perché ho deciso di finire Tacito prima di ricominciare con qualsiasi altra cosa.

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