mercoledì 6 ottobre 2010

Peter S. Wells - La battaglia che fermò l'Impero romano

Anche il classicista torna, a volte, sul luogo del delitto: alle origini, agli studi che lo hanno accompagnato nella sua formazione, per vedere come va il mondo accademico, cosa succede ai piani più alti della Cultura, che cosa si dice in quelle stanze universitarie che a noi, poveri docenti secondari, sono negate.
Ho trovato questo libro del Saggiatore, scritto da un professore di Antropologia alla University of Minnesota e archeologo che ha scavato in Germania il sito della battaglia di Teutoburgo, in cui, nel 9 a.C., il generale Quintilio Varo, inviato da Augusto al di là del Reno, venne sconfitto e massacrato con le sue tre legioni.
Wells è un ottimo archeologo, che non racconta però semplicemente lo scavo in maniera sistematica e accademica, ma integra i dati ricavati dalla tradizione letteraria a ciò che si ricava dai reperti a una innegabile vena narrativa. Il volume ha una buona antologia fotografica, che riporta anche materiale scavato in sito diversi da quello della battaglia o conservato in musei di tutta l'Europa settentrionale, che servono da confronto con quanto riemerso nei pressi del Kalkriese, l'altura sotto alla quale si operò la sconfitta di Varo.
La tesi finale del volume - che Augusto, dopo il massacro, abbia rinunciato a sistemare il territorio al di là del Reno come una vera e propria provincia - non è, secondo me, dimostrata in maniera definitiva: in effetti, per quanto importante sia il reperimento del sito della leggendaria "selva di Teutoburgo", è forse azzardato inferire dai dati archeologici una conseguenza così radicale (tutto sommato, anche Crasso era stato massacrato a Carre con tutti i suoi uomini, e le aquile delle legioni erano state sottratte dal nemico, ma ciò non ha mai significato la rinuncia di Roma a scontrarsi con i Parti). Meglio, allora, la tesi che i romani non avessero capito appieno la cultura e la società del Germani, e, di conseguenza, avessero poca coscienza delle potenzialità di quella terra, che ai loro occhi non appariva così promettente come la Gallia, dove si erano imbattuti in maggiori ricchezze che avevano potuto predare con più facilità. I Germani non erano imbattibili - lo dimostrerà Marco Aurelio - ma soltanto (agli occhi di Roma, certamente offuscati dai recenti, spettacolari successi di Giulio Cesare) troppo straccioni per le loro bocche ormai raffinate.
Piuttosto direi che il libro apre una prospettiva nuova, anche di revisione dei testi che ci tramandano queste vicende - il che non è mai un male. È dunque questo il pregio più grande del libro, che è una ennesima prova del fatto che l'archeologia sia una fonte preziosissima, che ci impone di guardare con occhio più critico le fonti (come lo stracitato Tacito), quei testi che troppe volte i dimentichiamo essere prodotto parziale, limitato, al postutto una sola delle tante realizzazioni di una comunità, e spesso nemmeno quella più importante e diffusa.

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