sabato 18 dicembre 2010

Henning Mankell, Il cinese

Un buon romanzo che fila via liscio. Non c'è il solito commissario Vallander, e l'indagine non è nemmeno una vera a propria indagine: è vero che il giudice Birgitta Rosslin si intrufola (quasi di malavoglia) in una indagine su una strage e pasticcia un po', ma poi viene buttata fuori. Per rilassarsi va in Cina, dove tutto improvvisamente diventa poco chiaro, le capitano cose spiacevoli e incontra persone tutto sommato poco gradevoli. Anche qui, dopo averla trattenuta con scuse puerili, la buttano fuori. E il giudice Rosslin che fa? Ritorna al lavoro più decisa di prima, manda in galera qualche pesce piccolo e insomma si disinteressa della strage finché una cinese non viene a raccontarle che non è tutto finito, che è in pericolo mortale e che se ha bisogno può chiamarla. Exit l'angelo protettore con gli occhi a mandorla, entra l'angelo sterminatore: Birgitta scappa a Londra, contatta la sua protettrice che le promette di farla entrare in clandestinità (nella Chinatown che i bianchi non vedono, quella nascosta dietro al paravento di plastica per i turisti... brrrr!), ma il giudice non si fida del tutto (e che diamine!), e insomma alla fine sta per lasciarci la buccia ma la sfanga in una maniera che è davvero esageratamente romanzesca (a Londra, poi!).
La parte migliore (a dire il vero, forse è l'unica buona) è quella in cui i protagonisti cinesi della storia vanno in viaggio d'affari in Africa, e piantano le radici per una vera e profonda colonizzazione del continente. Forse mi è piaciuta perché so che è la verità: i cinesi si stanno comprando pezzi enormi di Africa, che in tutta tranquillità si sta lasciando rapidamente cinesizzare. Già nel 1994, quando visitai il Senegal, il governo di Pechino aveva appena finito di costruire il nuovo stadio della capitale Dakar, con una stupenda autostrada a tre corsie che lo collegava alla capitale (su cui, ovviamente, non passava nessuno). Tutti mi dicevano che era un regalo per sancire l'amicizia tra i due popoli. Ah ah ah.
Sicuramente un altro magnifico aspetto del libro è la protagonista: la Rosslin è talmente svampita che suscita una immediata tenerezza! è un mito, con i suoi problemi coniugali, le sue manie (ama il vino costoso, scrive tutto a mano, prende appunti e fa uno schema per pensare anche solo alla lista della spesa), i suoi tempi abissali (io una che esce dall'albergo e passa il pomeriggio a sorseggiare tè in piena Pechino non la concepisco nemmeno), i suoi errori marchiani (dà il suo biglietto da visita a cani e porci, con indirizzo di casa e numero di telefono e tutto quanto...), le sue paranoie sull'età che passa e sull'aver partecipato al '68 (eh già, fuori dal nostro Paese si può riflettere seriamente sulla Rivoluzione sessantottina anche in un romanzo!), i suoi silenzi poco furbi e la sua logorrea incontrollabile, ambedue sempre nei momenti sbagliati. Birgitta Rosslin è una magnifica sfigata cinquantenne, e per questo è simpaticissima (e perfettamente riuscita).
Non sono riuscito a capire se l'elogio della cultura cinese tradizionale è sincero o pura facciata, ma la seconda ipotesi puzza di razzismo, e quindi tendo a scartarla.
Rimandi (come al solito sono miei personali): K. Blixen (per le scene di savana), Qiu Xiaolong (per il cattivissimo plutocrate di ultima generazione, ma anche per le visioni degli spartani uffici degli eroici onesti funzionari del Partito), Marge Gunderson di Fargo (la poliziotta Vivi Sundberg, anche se non è gravida e non prende il vero assassino).

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