giovedì 14 febbraio 2013

D. GROSSMAN - A un cerbiatto somiglia il mio amore


Piccola premessa: io penso che David Grossman abbia scritto il libro più bello di fine millennio, che è “Che tu sia per me il coltello” (1999).
Ciò detto, questo libro non mi è sembrato all’altezza.
È un libro impegnato e dolente, perché ripercorre l’itinerario di uno dei momenti più drammatici della vita del suo autore, la morte del figlio minore durante l’ultimo intervento di Tsahal in Libano.
È un libro sui temi cari a Grossman: l’amore, anzitutto, la pace e la guerra in Palestina, quello che c’è in fondo al cuore degli uomini, le relazioni, l’indicibilità, i silenzi e le parole che creano, le differenze generazionali e sociali.
Ma è lento. È lentissimo, e non nel senso che non ci sia azione. È lentissimo nel dipanarsi della ricostruzione della vita di Orah, la protagonista, e dei due uomini che ha amato, in modo diversissimo, per tutta la vita, e dei due figli che Orah ha avuto da loro.
E ha alcuni passaggi che mi sono parsi incomprensibili: tutto il racconto iniziale di Orah e del tassista palestinese, alla fine non son riuscito a capire a cosa diavolo servisse. A dire che la vita le sta crollando definitivamente addosso? Ma è chiarissimo anche senza quella parte, senza dover tirare in ballo la relazione quotidiana con il mondo arabo palestinese. Che la situazione di Orah e della sua famiglia sia metafora di quella di tutto Israele è chiarissimo: ma il rapporto con il taxista Sami mi pare, da questo punto di vista, fin troppo ottimistico. Ovvero, è Orah ad essere stata sempre troppo ottimista in proposito, ma a questo punto ben le sta: ha sfruttato per quasi due decenni un palestinese, e poi si meraviglia se quello si incazza...
E così anche la situazione con i suoi tre uomini: il marito Ilan e i figli Abel e Ofer sono, francamente, insopportabili. Se non altro per il fatto che la trattano come una minus habens o, alternativamente (ma alle volte contemporaneamente) come una serva di casa, o una brava cagnolina attaccata al padroncino. In effetti ci sono momenti in cui la signora si comporta esattamente a quella maniera, e ti verrebbe voglia di pigliare a calci anche lei - per esempio quando Ilan, dopo averla ingravidata ed essersene andato di casa appena nato il pupo con la scusa del ricordo dell’altro (che ha sofferto tanto, poverino), ritorna e fa tutta una manfrina per farsi riammettere. Ma un bel vaffanculopezzodimmerda non glielo vogliamo urlare, signora Orah, così che te lo togli dai piedi e forse - dico forse - ti rimetti con Avram e lo risistemi, che è chiaro che lui sì che ti ama davvero? E invece no, la signora Orah si riprende in casa il bell’Ilan, ne fa il padre del secondo figlio (che ha concepito con Avram in un impeto di crocerossinità, ma anche di amore sincero per quell’uomo).
Avram: quello sì che è un personaggio ben riuscito, stupendo nella sua diversità, nell’ironia sottile che lo anima fino al momento della cattura da parte degli Egiziani (durante la guerra del Kippur), nel suo silenzio, nella sua follia dopo il ritorno in patria, perseguitato dai ricordi delle torture degli egiziani, dalle domande dei Servizi Segreti israeliani che vogliono sapere cosa ha rivelato e dallo stesso Stato di Israele che, per tutto ringraziamento, lo mette a fare il cameriere in un ristorante indiano. Avram, che cerca di rifarsi una vita alla sua maniera, tagliando fuori la sofferenza, anche quella umanissima di un genitore, perché, povero cristo, non ne può più di soffrire (mentre Orah e Ilan giochicchiano a quelli che non ci possono credere a tutta la felicità che gli è capitata addosso, e chissà cosa ci sudderà, prima o poi la dovremo pagare e via così, in una autocommiserazione borghesuccia che a volte, onestamente, dà il voltastomaco). Adam che ha trovato una nuova fidanzata, Neta, di quasi venti anni minore di lui (massimo rispetto, Adam!), anche lei nel giro sbagliato, una borderline con tendenze suicide, che però è l’unica, l’unica di tutta la fottuta storia, abbastanza lucida da sbattere in faccia ad Avram  che lui è l’uomo della sua vita, ma, purtroppo, lei non è la donna della vita di Avram, come invece è Orah, di cui Avram non ha voluto nemmeno dirle il nome. Ecco: Neta è il personaggio che in assoluto mi è piaciuto di più in tutto il libro (anche se ci vive pochissimo), perché, almeno lei, è concreta, reale, diretta, viva, vivissima, come l’Avram di prima della prigionia.
Tralascio, per pietà nei confronti dell’autore, a cui devo alcuni dei più bei personaggi che io abbia mai incontrato in un libro, di commentare i due figli di Orah, una coppia di deficienti che peggio non si poteva, soprattutto quell’Ofer che è il motivo di tutti gli infiniti patemi di Orah, il vero motore della vicenda, che non solo mentre è in servizio si dimentica per tre giorni un povero scemo del villaggio rinchiuso in una cella frigorifera (e Ofer è uno attentissimo, a cui non sfugge niente, e un ragazzo giusto, a sentire sua madre: al che ti chiedi se davvero la signora non abbia dei problemi...), ma addirittura, a ferma conclusa, si dà volontario per tornare al fronte, con il rischio di farsi ammazzare nel suo carro armato, mandando con questo bel gesto del tutto fuori di testa sua madre (non che prima fosse a posto, intendiamoci). L’altro fratello, Adam, è un sapientino tutto suo padre, che ha un ruolo ben marginale nel libro - e grazie a Dio, chissà che scempiaggini avrebbe messo in piazza se avesse avuto più spazio per sé.
Non che sia tutto da buttare via, s’intende. Ci sono brani di lirismo puro, come il momento in cui Orah ricorda di aver passato tre settimane a fare avanti e indietro su una linea di autobus, con il terrore di saltare per aria in un attentato, solo per un impulso di cui nemmeno lei riusciva a darsi ragione. O come il personaggio del dottore rimasto vedovo che intervista tutti quelli che incontra sul sentiero, chiedendo loro quali siano i più grandi rimpianti e rimorsi che hanno. O il momento iniziale, quando Orah, Ilan e Avram si conoscono, nel reparto di quarantena di un ospedale di Gerusalemme, in cui sono rimasti del tutto soli, e non capiscono gran che di quello che succede per via del sonno e del delirio della malattia. O, infine, il racconto della rocambolesca fuga di Ilan e dei suoi compagni dall’avamposto in cui sono rimasti bloccati durante la guerra del Kippur, dove Ilan ha potuto ascoltare le ultime parole trasmesse per radio da Avram prima di essere catturato.
Ma questi bei momenti sono come dispersi, dissipati in un'aria rarefatta, un po' stordita, sonnacchiosa, e, ahimé, fin troppo autocommiseratoria. Peccato: poteva essere una grandissima figura di donna che spappola di spregio quei cialtroni militaristi che si ritrova in famiglia, e invece...
Mi ricorda: Amos Gitai, Kippur; Neil Gaiman, Nessun dove (a proposito di Neta); G. del Toro, Il labirinto del Fauno (per il primo incontro tra Orah, Avram e Ilan); FloRida, Whiste (Adam, che è un rapper impegnato); V. Natali, Cube (per lea raazione tra i tre protagonisti, e tra loro e il mondo arabo palestinese); NIN, The slip (è il suono che ho percepito in sottofondo per tutta la lettura).

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