venerdì 11 ottobre 2013

Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus!

Bella giornata, oggi. Sole, aria limpida, luce cristallina anche su Milano.
Ma in realtà ancora più bella la serata, quando scopro che è defunto un maledetto nazista, quell'Erich Priebke che era al comando delle SS che massacrarono 335 tra civili e militari alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.

venerdì 4 ottobre 2013

Il Mediterraneo, l'Africa, l'Europa, l'Italia

Non si potrà, temo, mai sapere a quanto ammonta per davvero il bilancio dei morti nell'ennesima strage di mare avvenuta ieri al largo di Lampedusa.
Ennesima, perché si è perso il conto di quanti poveracci siano morti in questi anni nel tentativo di sfuggire ad una vita devastata dalla povertà, dalla fame, dalla malattia, dalla persecuzione della dittatura politica o religiosa, dall'ignoranza, dalla schiavitù, dalla pura e semplice, nuda e cruda disperazione.
E il grido di dolore di Giusi Nicolini, sindaco di questo pezzo di terra italiana proiettata verso l'Africa, è il grido di chi ogni giorno è costretto dalla sua stessa posizione geografica a tenere un conto che nessun altro, né in Italia né in Europa, vuole tenere.
Un conto che è dovuto anche a ragioni storiche oggettive, che tanti, che oggi invocano misure più severe per l'immigrazione e che cinicamente si ribellano al lutto nazionale, non vogliono riconoscere, spesso perché ignorano completamente questa materia.
I regimi dittatoriali da cui questa gente scappa sono stati spesso foraggiati dai nostri governi democratici, che li hanno trattati come pezzi da gioco su di uno scacchiere dove abbiamo fatto le nostre mosse a nostro vantaggio, disinteressandoci completamente di quello che poi succedeva entro i confini di quelle pedine.
Quella ricchezza che, secondo molti, i migranti sognano di rubarci venendo qui, in effetti, ha buona parte delle sue radici nei loro Paesi, che le nostre aziende, siano o meno multinazionali, hanno saccheggiato e saccheggiano impunemente grazie alla connivenza con i regimi di cui sopra.
Gli armamenti con cui si combattono le migliaia di guerre grandi e piccole nei territori da cui questa gente scappa sono prodotti in Europa e negli Stati Uniti e in Russia, e sono venduti ai loro legittimi governi dai nostri legittimi, e ai loro terroristi dai nostri trafficanti criminali.
Le droghe di derivazione naturale e sempre più spesso anche sintetiche, prodotte in questi Paesi e poi vendute per finanziare le guerre interne da cui scappano i dannati che muoiono poco al largo delle nostre coste, sono consumate nelle notti di divertimento delle nostre discoteche, dei nostri club, dei nostri rave party.
Le donne che vengono rese schiave nei villaggi africani e poi sono portate qui a prostituirsi, i travestiti che emigrano in Italia illegalmente e battono i viali, le ragazze dell'Est europeo o del Sudest asiatico che si spogliano nei club, hanno clienti europei  che sono, temo, ben più numerosi dei loro connazionali.
La nostra civiltà è corresponsabile di questo movimento migratorio.
La nostra civiltà non dovrebbe lasciare Giusi Nicolini e i Lampedusani soli a tenere questo conto.
La nostra sarebbe civiltà se ci decidessimo a costruire una risposta vera di pace e progresso per tutti intorno a questo mare, invece che salvare banche che ci succhiano la vita e giustificare con le scuse più biecamente razziste la nostra inesistente superiorità.

domenica 22 settembre 2013

N. Lilin - Educazione Siberiana

Non ho ancora finito di leggerlo, però manca poco, e adesso ho del tempo che probabilmente non avrò quando avrò chiuso l'ultima pagina, quindi anticipo la recensione.
Allora, lasciando da parte tutto il polverone che è stato fatto a proposito della verità o non verità delle cose narrate in questo libro (su cui avrei da dire la mia, certamente, ma ho bisogno di tempo per costruire un discorso che sia fatto bene e comprensibile anche ai non addetti ai lavori della critica strutturalista), devo dire che il romanzo mi è sembrato valido per alcuni aspetti, ma disastroso per altri.
Lilin è certamente capace di dipingere un quadro realistico della Transnistria, la sua terra di onesti criminali in guerra contro altre bande, gli sbirri, l'Unione Sovietica, il demonio e chi più ne ha più ne metta. I paesaggi urbani degradati, il freddo siberiano, le condizioni di povertà di questa gente emergono con nitidezza, ma più per la loro stessa potenza icastica che per l'abilità di Lilin nell'uso della lingua... in effetti, questo è il punto più debole del romanzo: la lingua è un po' troppo monocorde, su un registro basso che non sembra scelto appositamente per rendere il contesto sociale, ma solo per mancanza di competenza. Ne è una conferma il ritmo della scrittura, che spesso non riesce a tenere dietro alle fasi dell'azione, soprattutto se sono concitate: paradossalmente, va molto meglio nei momenti di riposo, di spensieratezza lungo il fiume, nelle chiacchiere con gli anziani, nella rigidità dei riti parareligiosi della criminalità siberiana. In questo caso Lilin è davvero "dentro" la narrazione, i tempi sono perfetti, le battute puntuali, di grande effetto. Ed è in queste situazioni di lentezza che emerge il vero punto forte del testo, l'incredibile capacità di saltare da una narrazione all'altra, la capacità di aprire parentesi dentro a parentesi dentro a parentesi del discorso principale senza perdere il filo, senza confondere il lettore, senza smarrirlo dentro un labirinto, senza presentargli personaggi a metà, che poi spariranno lasciando dei buchi nella storia. In questi casi il ritmo della scrittura è perfetto, trascinante nella sua lentezza come le acque del fiume su cui Kolima va a pesca con i suoi amici nei giorni della sua giovinezza.
Alla fine mi è piaciuto, ma l'avrei goduto di più se ci fosse stato un vero cambio di ritmo trale parti più "evocative" e quelle di azione.
Mi ha ricordato: Joseph Porta (uno dei protagonisti dei romanzi di Sven Hassel), per la straordinaria capacità di infilare un racconto dentro l'altro; Pétit Frère (alias l'Obergefreiter Wolfgang Ewald Creutzfeld, il degno compare di Porta) che mi sembra l'ispiratore di Mel; Derzu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure; Ivan Danko; Depeche Mode, Personal Jesus.

venerdì 6 settembre 2013

Cose che non si sanno e che invece si dovrebbero sapere

Leggo sull'ottimo Il Post che la Corte suprema dei Paesi Bassi ha decretato oggi che l'Olanda è responsabile della morte di tre musulmani bosniaci durante il massacro di Srebrenica del luglio 1995.
L'articolo spiega che si tratta di una notizia importantissima, perché questa decisione (che conferma quanto stabilito nei precedenti gradi di giudizio, nel 2011 e nel 2012) potrà avere delle conseguenze capitali sulle missioni di cosiddetto peacekeeping, dato che gli Stati potrebbero anche iniziare a rifiutarsi di parteciparvi, di fronte al rischio di condanne simili a questa conseguenti ad un comportamento scorretto dei propri soldati.
In effetti la decisione è importante, ma molta parte della stampa online italiana sembra ignorarla: l'ho trovata su Il Post, Corriere TV e La Stampa (una robetta striminzita, ma c'è...) e su direttanews, mentre Repubblica, Fatto Quotidiano, Libero, Unità e Manifesto tacciono; la notizia non è riportata nel sito dell'ANSA né in quello di Reuters Italia (ma su Reuters USA c'è: come se l'Adriatico fosse più ampio dell'Atlantico). Ho messo in Google: "srebrenica olanda condanna", e mi esce come primo risultato il sito di direttanews, e al secondo posto un articolo del 6 luglio 2011 (data della prima condanna). Ecco, già così sono, come dire, contrariato. Poi ho scritto (sempre in Google) in inglese: "dutch state srebrenica" e mi è uscita una pagina di risultati solo sulla notizia di oggi, tutte testate e agenzie che ne parlano: e passi per l'Independent Ireland (per quanto il Mare Celtico mi paia lontanuccio dall'Adriatico...), ma c'è anche il Bangkok Post, che è davvero dall'altra parte del globo. Noi siamo qui, a una manciata di ore di aereo da Belgrado, affacciati sullo stesso mare su cui si affacciava quella Jugoslavia di cui Sarajevo è la tomba e Srebrenica la lapide, e molti importanti giornali online non ne parlano minimamente.
Poi la colpa è della scuola, che non sa più motivare gli italiani a studiare la Storia.

martedì 27 agosto 2013

A. GIMÈNEZ-BARTLETT - Vita sentimentale di un camionista

Finita la rilettura del fantasmagorico Q di Luther Blisset (segue recensione, forse), mi sono riguardato tutta la libreria in salotto, e ho pescato, non senza qualche esitazione,  questo libretto (nell'edizione Sellerio del 2010). L'esitazione, in realtà, era data dal fatto che non so bene come sia arrivato sugli scaffali, visto che non riporta ex libris, né del sottoscritto né della mia signora. Comunque, dopo essermi convinto che probabilmente si trattava di uno di quegli acquisti un po' avventati, di cui poi si dimentica persino l'esistenza, l'ho aperto e iniziato.
Ma non l'ho finito, e non penso che lo farò mai, e per un motivo che mi è stato subito chiaro: l'incipit. L'autrice, invece di iniziare a raccontare la sua storia, apre con un pistolotto di tre pagine in cui spiega come le è venuta l'idea per il libro (e già qui... mah...), poi come ha fatto a costruire il protagonista (e perché mai dovrei desiderare saperlo? io voglio leggere quello che gli capita, non la sua scheda anagrafica!) e infine cosa voleva dire con il suo racconto (gulp! ri-gulp! ma stiamo scherzando?!?). Ecco, di fronte a questo dispiegamento di informazioni non richieste, mi sono risentito: neanche fossi un interdetto che non ha la minima idea di cosa sia un romanzo, di come vada affrontato, di cosa mi aspetta! Mi sono sentito trattato come un moccioso preso per la manina e introdotto in un palazzo bellissimo che non ha mai visto prima, ma che non viene lasciato libero di esplorare con i suoi ritmi e i suoi occhi e i suoi pregiudizi e le sue aspettative. E che diamine! Trovo che, da parte di un autore, sia un atteggiamento davvero poco rispettoso dei suoi lettori. Spiattellato così, nemmeno sotto la dicitura Introduzione, Avvertenza al Lettore, Prologo... niente: dopo il colofon, una bella pagina bianca con il titolo e poi via, le istruzioni per l'uso, sfacciate nonostante il carattere corsivo.
Certo, di romanzi con prefazione a proposito dei modi della composizione ne ho già letti: che so, quel tomo romanticissimo di un geniaccio lecchese che parla di un matrimonio che non s'ha da fare... o anche il poliziesco di quel piemontese che narra una oscura storia di assassinii in monastero, alla ricerca di un libro proibito. In questi casi, però, le dichiarazioni di intenti poetici sono già una narrazione: si mettono una maschera, si camuffano da manoscritto ritrovato, giocano di ironia con il lettore. Ecco, quello che mi ha offeso di più nell'inizio di questo romanzo è l'assoluta mancanza di ironia, il piglio saccente, il modo spocchioso di trattare il lettore.
Magari mi son perso un romanzo ben scritto, ma tanto la signora mi aveva già spiattellato tutto fin da prima dell'inizio.
Vade retro.

giovedì 22 agosto 2013

M. CORTI - Introduzione a "Guido Cavalcanti - Rime"

Edizione BUR Poesia del 1987, che riprende quella 1978. E si sente.
La signora Corti è certamente una grande medievalista, come suggerisce la quarta di copertina, ma scrive con una pesantezza da far stramazzare un cammello. Il testo dell'introduzione è lentissimo, si trascina in una prosa noiosamente retrò, quasi volesse tediare il  lettore. Non credo che sia intenzionale, è solo che in quegli anni si scriveva così. Che è poi la stessa cosa che accade per i contenuti: sono certamente validissimi, ma seguono un andamento a volte talmente ellittico da apparire labirintico, fatto di accenni non completati, suggerimenti sibillini, silenzi che si vorrebbero eloquenti. A tratti sembra quasi che la Nostra si degni di gettare, pur con una certa supponenza, le sue perle a noi, porcelli entrati di soppiatto nel Paradiso della Poesia Lirica, completamente sprovvisti degli strumenti per comprendere cose come "la forza della funzione segnica" di un capolavoro.
Sarà che sono ignorante, saran l'ora del tempo e la dolce stagione, sarà che son passati trentacinque anni e si sente, ma questa introduzione mi ha abbattuto sul tavolo, e mi son fatto un'oretta di sonno.
Un vero peccato, perché, al netto della spocchia accademica, del ritmo mortifero e del lessico retrodatato, quello che Maria Corti traccia è un percorso interessante dentro la poesia e le fonti filosofiche di uno dei maestri più importanti della lirica italiana, che avrebbe ancora oggi tantissimo da insegnare.
Servirebbe una bella operazione di svecchiamento stilistico, di ripulitura scrittoria, di forzosa discesa al livello dei mortali.

lunedì 29 luglio 2013

100 anni di infamia

Oggi arriva a un secolo di vita Erich Priebcke, che il 24 marzo 1944 fu il braccio destro di Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, nell'esecuzione della strage delle Fosse Ardeatine, in cui 335 romani vennero giustiziati per vendicare i soldati SS morti il giorno prima nell'attentato partigiano di via Rasella.
Nei giorni scorsi si era parlato di una festa di compleanno, poi il suo avvocato ha detto che non se ne sarebbe fatto nulla. Però intanto ha ricordato che sarebbe comunque stata legittima. Il famoso avvocato Taormina dice che se la festa ci fosse stata, ci sarebbe andato volentieri.
Certo, i due sono i difensori di questo personaggio disgustoso, e in qualche modo devono essere in sintonia con lui, e quindi è davvero poco stupefacente che rilascino dichiarazioni del genere.
Più stupefacente, invece, il silenzio delle autorità, che una volta di più lasciano correre sulle vicende che vedono implicato questo nazista, che ancora oggi è convinto di aver fatto una cosa giusta. Non intervenire è pericoloso: Priebke è un criminale, e non ribadire ufficialmente che l'Italia è decisamente scontenta del suo compleanno significa permettere ai suoi sostenitori di pensare che l'Italia abbia qualche motivo per giustificare le idee che hanno sostenuto tutta la vita di questo assassino.
Egregio Presidente Napolitano, le spiacerebbe usare un po' della determinazione che usa per imporci sgradevoli governi anche per condannare eventi del genere?
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